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Viva O'Re - La battaglia del Volturno
La "liberazione" del Mezzogiorno
Una grande campagna militare, ma anche politico-diplomatica, che solo un uomo come Garibaldi poteva concepire e portare a termine. Tutto iniziava il 5 maggio 1860, a Quarto. Mille fucili ridotti male e senza munizioni, che vennero poi acquisite lungo la via attraverso guarnigioni ed arsenali compiacenti (come a Talamone per esempio). In Sicilia lo aspettava un esercito di 25.000 uomini, mentre altri 75.000 soldati dell'esercito del Re di Napolierano schierati lungo tutto il Regno delle Due Sicilie.
L'esercito napoletano
L'esercito napoletano era formato su un modello di esercito professionale. Era forte di 48 battaglioni di fanteria e 34 squadroni di cavalleria. I soldati erano quasi tutti a lunga ferma. Potremmo definirli oggi dei professionisti, ma l'obiettivo dell'esercito napoletano era svolgere compiti di polizia, e l'arruolamento era spesso sostenuto da disoccupati, delinquenti e disadattati sociali, e in questo, in verità, non era molto diverso da altri eserciti professionali, come quello inglese. La differenza era nelle risorse economiche a disposizione e nell’addestramento, totalmente antiquato e da piazza d’armi. L'esercito napoletano non aveva mai manovrato ad un livello superiore alla Brigata.
La battaglia del Volturno
Siamo a metà settembre: dopo la conquista della Sicilia, l'esercito garibaldino si era incredibilmente rafforzato, ma la maggior parte delle truppe era costituito da volontari, molti dei quali avevano imbracciato fino ad allora, se andava bene, un fucile da caccia. In tutto circa 20.000 uomini, che si erano fermati all'altezza di Capua per riordinare le file e coprire Napoli. Garibaldi era arrivato a Capua grazie ad una "vittoria" dopo l'altra. Le battaglie spesso erano state poco più che scaramucce e molte città si erano praticamente liberate da sole, ma di fatto l'esercito borbonico non si era sfasciato, anzi attendeva Garibaldi con più di 50.000 uomini. I borbonici rimanevano fedeli, pochissimi di loro erano passati dalla parte del "liberatori" (anche se molti ufficiali stavano trattando con i piemontesi e con Garibaldi stesso). Le perdite erano state modeste per uomini, ed irrisorie in materiali (cavalli e cannoni). Questo esercito era fermo sulla linea del Volturno, al comando del generale Ritucci, mediocre ma fedele. Su pressione del Re, che aveva visto giusto, Ritucci decise di passare all’offensiva. Semplice e lineare: una ad ovest, con base a Capua, contro Santa Maria Capua Vetere (Generale Tabacchi) e contro Sant’Angelo (Maresciallo Afan De Rivera). L'altra contro Maddaloni (Generale Von Mechel). Il piano prevedeva l'inizio dell'offensiva il 1° di ottobre 1860.
Il fronte garibaldino era molto esteso (20 km in tutto), ma probabilmente Garibaldi aveva avuto una copia del piano, e quindi i garibaldini sapevano più o meno cosa li stava aspettando.
L'attacco cominciò a Santa Maria Capua Vetere. Alle quattro del mattino gli avamposti garibaldini udirono a circa duecento metri un rauco grido di "Viva o'Re": erano i due reggimenti Granatieri della Guardia che partivano all’attacco, appoggiati da 4 squadroni di lancieri e dai Cacciatori della Guardia. I garibaldini però sparavano bene, avevano due gruppi di artiglieria in batteria, ed i napoletani, molto coraggiosi, non sapevano combattere una guerra moderna: avanzarono in colonna e furono falciati in colonna. Arrivarono comunque a pochi metri da Santa Maria, ma alla fine furono costretti a retrocedere.
Alle 9 del mattino arrivò Re Francesco con i fratelli e la Guardia, appena respinta, ripartì all'attacco e mise piede nella città. Seguì una serie di mischie confuse, perlopiù logoranti ed inconcludenti. Nel momento cruciale della battaglia, quando i soldati napoletani si impadronivano delle prime case, iniziarono a sfondare le porte in cerca di cibo (era da due giorni che non mangiavano) e parte delle energie dei comandi vennero così perse per recuperare i soldati che si allontanavano dal combattimento. La Divisone che fiancheggiava le Guardie non avanzò insieme a loro, ma rimase ferma: il comandante scomparve ed un paio di comandanti di battaglione scapparono a Capua. Con tutto questo, i garibaldini cominciavano a cedere alla superiorità numerica degli avversari.
La battaglia contro Maddaloni fu ancora più confusa. Mechel si trovava contro Bixio, uno dei migliori generali di Garibaldi. La marcia di Mechel venne rallentata da ottime azioni di retroguardia, e per nulla aiutata dalle altre colonne che in teoria avrebbero dovuto appoggiare il suo attacco. In pratica, anziché accorrere al suono del cannone, le altre unità borboniche caparbiamente se ne andavano per conto loro seguendo gli ordini dati quasi alla cieca il giorno prima. Comunque, Von Mechel premeva su Bixio che cedeva terreno. Così si sviluppò la battaglia. Ritucci, il comandante napoletano, non sapeva cosa fare. Era assolutamente incapace di coordinare qualsiasi intervento delle riserve, che sarebbero state incisive ovunque fossero state inviate, mentre i napoletani stavano praticamente vincendo ovunque. Invece Garibaldi era, come al solito, padrone della situazione. Tutte le riserve vennero gettate su Santa Maria, dove i napoletani ormai combattevano da 10 ore. Il peso dell’attacco si fece sentire, i napoletani indietreggiarono ed alcuni reggimenti in rotta. Fu, dunque, a Santa Maria che venne vinta la battaglia. Ritucci diede l’ordine di ritirata, e le varie colonne napoletane, ancorché alcune vittoriose, iniziarono a sganciarsi ed a ripiegare.
I napoletani si batterono bene, con circa 4.000 perdite (la maggior parte concentrate a Santa Maria), più o meno equivalenti a quelle dei garibaldini – che però si deve dire erano un po’ meno della metà dei soldati avversari partecipanti alla battaglia.
Il diorama mostra il momento in cui Garibaldi lancia le riserve sul fronte di Santa Maria. Le riserve napoletane sono in colonna, coperte da reparti di cavalleria. I garibaldini sono invece in linea, la formazione più adeguata alla potenza di fuoco delle armi del periodo, come dimostrerà pochi anni più tardi la Guerra Civile Americana.
Fabrizio Ceciliani