La tragedia di Custoza
Così venne chiamata. Più che una tragedia fu una farsa. Una campagna militare combattuta con la certezza che lo scontro vero si sarebbe combattuto nelle pianure dell’Europa Centrale. Il neonato Regno d’Italia entrò in guerra a fianco della Prussia in uno scacchiere secondario contro l’Impero Asburgico ed i suoi alleati tedeschi. Queste le premesse della guerra in cui l’Italia si precipitò ufficialmente il 23 giugno 1866, con l’obiettivo di liberare il Veneto, il Trentino e Trieste dalla dominazione austriaca. Una settimana prima, la Prussia aveva aperto le ostilità contro la Sassonia.
LE FORZE IN CAMPO
Gli Italiani
Benchè non all’altezza degli eserciti delle altre potenze europee, il neonato esercito del Regno d’Italia costituiva una forza da non disprezzare. Molti uomini, ma artiglieria poco moderna ed ufficiali incapaci di coordinare azioni ad ampio respiro. L’armamento non era moderno, ma in linea con quello austriaco e con lo standard dell’epoca.
L’esercito era in mano al generale Lamarmora, il Comandante in capo ma anche il Primo Ministro. Il Re era onnipresente, dotato di grande coraggio personale, ma pasticcione e sempre pronto a dare consigli o a prendere iniziative, spesso militari e sul campo, saltando tutte le gerarchie.
Gli austriaci
Un esercito mediocre e povero, demotivato e poliglotta: i soldati non capivano gli ufficiali, e vice-versa. L’esercito austriaco era perennemente a corto di tutto, combatteva con dottrine superate (ma anche gli italiani bisogna dire) e, soprattutto in Italia, era impostato per un’azione difensiva.
Le armi erano buone (il moschetto Lorenz era il miglior moschetto ad avancarica), ufficiali mediocri, in generale in linea con quelli italiani, ma migliori comandanti di corpo ed un buon Stato maggiore per coordinare le azioni.
Nel complesso i due eserciti si equivalevano, anche se numericamente l’esercito austriaco era circa la metà di quello italiano. Gli austriaci sapevano però quello che volevano (difendersi) e avevano molto ben chiaro come farlo. L’Italia era uno scacchiere secondario: loro dovevano solo rallentare l’esercito italiano. Il morale dell’esercito era però basso, mentre quello italiano era molto alto, almeno all’inizio della campagna.
LA CAMPAGNA
Da parte italiana, il piano strategico prevedeva un assalto sul Mincio, al comando di Lamarmora, ed un’azione diversiva a sud, lungo il Po e l’Adige. Gli austriaci potevano parare solo una minaccia, ed intelligentemente schierarono tutte le truppe disponibili verso il fronte del Mincio, coprendo l’attacco da sud con battaglioni di Jager (fanteria leggera).
L’obiettivo italiano era di attaccare a testa bassa: una volta attraversato il Mincio, nessun piano decente di azione.
Quando Lamarmora avanzò, si trovò subito di fronte gli austriaci pronti a contrastarlo. La sera del 23 l’esercito era già fermo e si preparava ad una battaglia contro un nemico di cui non si conosceva né la consistenza né lo schieramento.
Il 24 si combatte la battaglia, confusa e frammentata in azioni in cui gli italiani combattono sempre con singole Divisioni. Non è un ordine di battaglia, ma un ordine di marcia: due ali abbastanza distanti da non poter aiutarsi l’una con l’altra, ed un centro, con i rimanenti 50.000 uomini, all’attacco di Custoza e Villafranca. Non che gli austriaci si muovessero molto meglio, ma di fatto si trovarono in inferiorità alle ali, dove però non successe quasi nulla, ed in superiorità al centro, dove invece si sviluppò la battaglia principale. Il III Corpo di Della Rocca, soprannominato “macigno” non per la tenacia ma per il suo non brillante acume, venne subito rallentato da una carica di Ussari austriaci: le Divisioni italiane si chiusero subito in quadrato e la carica passò oltre, provocando però disordine nelle retrovie, e rallentando l’afflusso di rifornimenti. Di fatto le due Divisioni non si mossero praticamente più per tutta la battaglia! I comandi superiori erano ovviamente all’oscuro di tutto: Lamarmora non si trovava, ed il re dava consigli a caso. Fu quindi la volta della Divisione Govone e della Brigata Granatieri di Sardegna. Entrambe vennero dirette da un ordine – pare – di Lamarmora, che saltò la linea gerarchica del Comando di Corpo. Govone era il miglior e Generale in campo: attaccò e vinse, rimanendo padrone di Custoza e della pianura sottostante. La resistenza austriaca parve venire meno: la battaglia sembrava persa. Sulle ali, gli austriaci erano in inferiorità e per un po’ il comandante in capo austriaco, l’Arciduca Alberto, pensò quasi di ritirarsi. Ma da parte italiana non succedeva niente. Govone si era fermato. La Divisione era stanca: i combattimenti erano stati abbastanza duri, le munizioni erano arrivate al 50%, e da dietro non arrivavano rincalzi, senza contare che agli uomini non era stato distribuito il rancio. Govone mandava messaggi a Della Rocca, che faceva finta di ignorarli e se ne stava tranquillamente seduto in un caffè a Villafranca: la risposta, in dialetto piemontese, che diede all’ennesimo aiutante fu: “dica al suo Generale che si arrangi”. Tutte le riserve del III Corpo rimasero quindi ferme, intanto che i soldati di Govone venivano attaccati ripetutamente dagli austriaci che avevano ripreso energia e si facevano sotto. La Divisione Govone e la Brigata Granatieri di Sardegna resistettero più che poterono, ma alla fine furono costretti a cedere terreno. La ritirata fu ordinata, e senza panico, ma a questo punto tutto l’esercito ripiegò, fino a riattraversare il Mincio.
Il conto del macellaio
Gli italiani lasciarono sul campo 3300 caduti, fra moti e feriti, contro i 5000 austriaci. Ma lasciarono nelle mani austriache anche 4000 prigionieri e dispersi, contro 2800 austriaci.
Il diorama.
La scena rappresenta il momento in cui il Generale Govone decide di sganciarsi. Le vie di Custoza sono occupate dai pezzi di artiglieria, che in una ritirata sono i primi ad allontanarsi, mentre la fanteria in linea rimane in copertura lungo i sobborghi del paese. Gli austriaci attacco in colonna, la formazione di attacco preferita del periodo: era una formazione ormai non più adeguata, come recentemente dimostrato dalla guerra civile americana, e come verrà confermato dopo pochi giorni sulle pianure insanguinate di Sadowa, ma era anche l’unica formazione che i poco addestrati coscritti austriaci sapevano eseguire.
Fabrizio Ceciliani